16 Giugno 2020

Fashion revolution

Il movimento della fashion revolution

Il 24 Aprile del 2013, 1138 persone sono morte, e molte altre sono rimaste ferite, a causa del crollo del complesso produttivo di Rana Plaza, a Dhaka, in Bangldesh, sede produttiva di marchi come Primark e Mango.
Questo tragico incidente, punta dell’iceberg di un sistema di sfruttamento sistematico, diede inizio alla ‘Fashion Revolution’: progetto che ha lo scopo di diffondere consapevolezza tra chi acquista delle pratiche scorrette della gran parte dell’industria della moda. L’intenzione è quella di mettere in luce la condizione lavorativa in cui versano lavoratori e lavoratrici del settore della moda. Molte case produttrici famose infatti operano in modo poco trasparente, sfruttando chi produce i loro capi e inquinando l’ambiente.

Un documentario che più di tutti nasce per sensibilizzare le persone riguardo a questa tematica è “The true cost” che analizza l’argomento sotto tutti gli aspetti: dal consumismo sfrenato, passando poi per la produzione poco etica delle materie prime come il cotone, al lavoro di mano d’opera non tutelato fino alla grande quantità di rifiuti tessili conseguente a questo sistema.
L’ambiente è il primo a pagarne il prezzo e vite delle delle persone nei paesi più poveri ne sono legate a doppio filo perché sono spesso loro a subirne le conseguenze per primi e di intensità maggiore.

Cosa possiamo fare noi?

Oltre a continuare ad informarci e diventare più consapevoli, possiamo anche partecipare attivamente a questa rivoluzione. Ad esempio durante la settimana del 24 Aprile possiamo aderire alla Fashion Revolution week. Si tratta di una settimana in cui questo movimento invita noi cittadine e cittadini ad indossare un indumento al contrario, scattare una foto e condividerla sui sui social chiedendo ai brand “Chi ha fatto i miei vestiti?” #WhoMadeMyClothes

L’obiettivo è chiedere alle aziende prima di tutto trasparenza su chi e in che condizioni realizza i capi che noi acquistiamo. Un primo passo questo, per avvicinarsi ad una moda più etica, a 360 gradi.

La trasparenza però non è da sola un fattore sostenibilità ambientale e sociale di un’azienda o di un prodotto.

Va accompagnata quindi con l’applicazione, anche in questo settore, delle famose 5R:

1. Qualità invece che quantità Ridurre il numero di capi e accessori e concentrarci sulla qualità, riparabilità e durevolezza è il concetto base dello stile di vita zero waste e minimalista. Attenzione quindi agli sconti che spesso ci portano ad acquisti inutili. Investiamo un po’ del nostro tempo nella ricerca di ciò di cui abbiamo bisogno prima di comprare: sia noi stessi che l’ambiente meritiamo il meglio.
Sosteniamo piccole aziende artigiane del territorio o acquistiamo abiti certificati Fairtrade grazie ai quali ai lavoratori viene garantito un salario minimo mai al di sotto del prezzo di mercato.

2. Capsule wardrobe: in italiano armadio capsula è un metodo molto pratico che permette di avere sempre molti abbinamenti diversi usando però pochi vestiti.
Consiste nel trovare per ogni capo di abbigliamento almeno 4-5 abbinamenti di stili completamente diversi tra loro: dall’elegante, al casual, al professionale e così via.
Questo permette di ridurre il numero dei capi effettivi del nostro armadio senza rinunciare ad una vasta scelta di stili. Niente più vestiti dimenticati o pensieri come “non ho nulla da mettermi”.

3. Seconda vita ai vestiti Prendersi cura dei propri capi e aggiustarli quando si rompono, non solo ne allungherà la vita ma ci farà anche risparmiare soldi e ridurre il nostro impatto ambientale.
Allungando la vita di 9 mesi di utilizzo è possibile ridurre l’impronta di carbonio del 20-30%, la stessa riduzione in percentuale anche di impronta idrica e di rifiuti (fonte Wrap).
Ecco quindi che basta cucire uno strappo, togliere i pelucchi, chiedere ad amici e parenti più esperti di noi una mano o portare il capo in sartoria per dar loro una nuova vita. Il vestito più sostenibile è quello che hai già.

4. Mercatini vintage e app Acquistare e vendere o donare nell’usato sta diventando una pratica sempre più diffusa, soprattutto per le nuove generazioni. Dal 2016 l’acquisto di abiti usati è aumentato del 22.5% (fonte Ethical consumer markets report).
E’ possibile farlo in tantissimi negozi e mercatini in tutta italia, la ReteZeroWaste li ha raccolti in questa mappa.
Ma al giorno d’oggi esistono anche molte app che permettono di fare lo stesso comodamente da casa come Shedd, Depop o Greenflea. Anche in questo caso però non bisogna lasciarsi ingannare dai prezzi bassi e acquistare solo ciò di cui abbiamo davvero bisogno!

5. Swap Party: Ottimo passatempo da proporre agli amici o buona occasione per conoscere persone nuove è organizzare o partecipare ad uno swap party.
Non è nulla di più di un evento in cui ciascuno porta alcuni dei vestiti che non usa più e scambiando due chiacchere in compagnia sceglie tra i capi portati dalle altre persone cosa potrebbe fare al caso suo.
I nostri vestiti quindi troveranno una nuova casa e noi potremo arricchire in nostro armadio con qualcosa di nuovo, tutto a costo zero.

Per cambiare il settore della moda c’è bisogno di un’azione congiunta di aziende più responsabili, politiche internazionali efficaci e cittadine e cittadini consapevoli e attivi. Assieme possiamo davvero fare la differenza con piccole azioni.

“Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente – commenta Marina Spadafora, coordinatrice del Fashion Revolution Day in Italia. –Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo”.